Di Rosalba Di Vona avevo già avuto modo di leggere le poesie comprese nella silloge Respiro del Tempo,
pubblicata qualche anno addietro, nel 2018, e le avevo trovate ricche,
oltre che di un sensibile afflato di comunione, di un appassionato
lirismo, capaci, come sottolineava la sua prefatrice Nadia Angelini, di
“liberare mente e cuore”, assolvendo così la funzione, direi addirittura
la “missione”, della Poesia nel rappresentare paesaggi e situazioni,
“il senso delle cose e il valore della vita”, mettendo al tempo stesso a
nudo l’anima dell’Autrice, protesa a rincorrere, come una creatura
innamorata di infinito, l’”aquilone” dei sogni, nonostante tutto. Si
intuiva, nella “valigia stracolma di sogni e di speranze” di quei testi,
il bisogno (e il sogno) di trasformare esemplarmente “l'ordinario”
della vita in una esperienza “straordinaria” di verità: la necessità di
scoprirvi ed evidenziarvi, per sé e per tutti quelli che le leggono con
intelletto d'amore, davvero “un pezzetto della propria anima”. Ecco, è
all’interno di queste coordinate, tra il sogno e la realtà, tra fede nei
valori e constatazione dell’improba quotidiana fatica a corrispondervi,
che mi sembra si possa inscrivere quello che Rosalba continua ancora
oggi a perseguire, oltre la prosa di una quotidianità più o meno
dissimulata e trasfigurata, anche in questo “racconto poetico”
attraversato e agito da fiera inquietudine ma senza smarrire mai il
bandolo etico, l’”invisibile filo”, quello dell’amore, che, giusto il
titolo di una sua opera narrativa coeva alle poesie, regge la sua
scrittura. Sulla scena della vita, è questo il punto: Rimbaud diceva che
“je est un autre”, che chi dice io nel testo è un “altro” e che le ragioni del récit non gli appartengono se non in quanto portatrici di un’istanza di esproprio. Per dirla con Freud, ogni
individualità è abitata da un’alterità, da un Altro che la perturba e
la frammenta, da un abisso insondabile che assedia e tormenta e gli fa
inscenare situazioni tutt’altro che armoniche e gratificanti, da cui
prendere le distanze. È quello che la Di Vona vuole dire giusto in apertura del secondo testo, La mia alba, la mia vita?
Proprio qui, in un gioco retorico di rivendicazioni di proprietà (il
“mia” così perentoriamente insistito), pone in chiaro le sue carte,
mettendo le mani avanti con l’affermazione che “Non sempre / l’alba mi
apparteneva”, evocando subito appresso, con quel “disarmonico ordine”
della danza dei velleitari fantasmi “del nulla”, l’ossimorico disagio di
uno straniamento che si pone addirittura a monte, all’origine della
situazione che è condizione di ciò che in appresso sarà narrato e che
trova già anticipazione nel primo testo, intitolato non a caso Incubo. Ce n’è a sufficienza per vedere agire sulla scena di questo “racconto in versi”, che preliminarmente si intitola all’”Amore” (Poema d’amore),
il fantasma della sua negazione, della Violenza e del conculcamento
della volontà cosciente dell’Io, nella situazione di una “vacuità”
generata dalla ritualità di piccoli gesti quotidiani, che lo scorrere
degli anni spoglia del loro valore emozionale e fa avvertire come
diminuzioni, come “perdite”. Una “vacuità” fatta di che? Di
fantasticherie, di “ricordi”, di “sogni”, un termine quest’ultimo che
ricorre troppe volte nel testo per non esserne un significante
essenziale? E da riempire come? Di “normalità”, dice. Ma che cos’è la
normalità, per un io che si definisce con statuti grammaticali femminili
“assetata di normalità”? Nel “disarmonico ordine” di un mondo come
quello in cui viviamo, nell’autentico “rovesciamento” di valori
quotidianamente sotto gli occhi di tutti, può voler solo dire
drammaticamente la presa d’atto della precarietà del suo ruolo, del
femminile, e la coscienza della sua esposizione ad ogni sorta di più o
meno subdole aggressioni, in un autentico “circolo infernale”, in un
gioco perverso e ambiguo tra vittima e carnefice, lasciando l’io in un
“vuoto” di solitudine angosciosa. È questo il teatro della storia, oltre
la sua flagranza: lo spazio in cui prende corpo, a posteriori, la
decisione di esorcizzare gli “incubi notturni” da essa generati con
un’ansia testimoniale e pedagogica, si immagini quanto dolorosa ma
lustrale, volta a dare “ali” e a “ricompensare”. Dare “ali” e
“ricompensare”: attraversando il testo, che si fa leggere davvero con
vivo interesse, si capisce perfettamente chi siano le persone
interessate e le motivazioni che l’Autrice ha in mente. E questo per
esorcizzare il senso di colpa di un capogiro, di un’illusione. Il
risultato è una prova quanto mai convincente, sia sul piano delle
emozioni che dello stile: al lettore il piacere e il compito di
verificarlo. VINCENZO GUARRACINO

