A P I C E TRA IL RICORDO E LA MEMORIA

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Arrivai ad Apice in un mattino freddo e assolato di febbraio, il navigatore mi condusse alla vecchia strada che trovai sbarrata da un cancello. Tornai indietro, mi fermai davanti alla prima abitazione su cui è collocata l’insegna del paese di Apice; un anziano signore, appoggiato alla sua auto, mi seguiva con lo sguardo; mi avvicinai e gli chiesi perché la strada fosse chiusa, mi spiegò che l’ingresso era dall’altra parte del paese e mi indicò il percorso. Prima di lasciarlo scattai una foto all’abitazione dove era attaccata l’insegna del paese. L’uomo si avvicinò con passo lento e mi sussurrò con parole cariche di nostalgia: “Questa è casa mia, ho vissuto sempre qui, fin da bambino, ora abito in paese” e voltandosi mi indicò il paese nuovo, all’altro versante della collina, un agglomerato di case di fronte al paese vecchio. “Ogni giorno ritorno in questo luogo, qui ci sono i miei ricordi, i ricordi di un’infanzia vissuta tra dura fatica e momenti indelebili di felicità. Questo è quello che rimane di una vita di lavoro e di sacrifici: mura decrepite e cadenti”. Mi resi subito conto che Apice non era uguale agli altri paesi abbandonati che avevo visitato: in quelli c’era solo silenzio e rassegnazione, la gente che era andata via non era mai più tornata nemmeno per vedere cosa fosse rimasto del loro passato e dei loro affetti, e, se pur tornavano, restavano sempre ai margini del paese, senza mai entrarci. Ad Apice la gente non solo aveva ancora qualcosa da raccontare, ma anche le mura avevano voce, parlavano facendo più rumore di quel silenzio che mi circondava. Salutai l’uomo e mi avviai al nuovo ingresso del paese. Ad accogliermi fu la Presidente della Proloco di Apice, la Sig.ra Carmela D’Antonio, accompagnata da un vivace e simpatico bambino. Subito dopo ci raggiunse l’Assessore alla Cultura, Daniela D’oro, una giovane ragazza dai capelli folti e ricci, dai cui occhi trapelava l’entusiasmo e la voglia di recuperare ciò che non doveva essere dimenticato. Mi guidarono per le strade del vecchio paese esprimendo tanta voglia di conservare e riacquistare ciò che restava del borgo abbandonato. Mi affascinava ogni parola che dicevano, avevano un enorme potere evocativo, parlavano di quel luogo come se il tempo si fosse fermato e da lì a qualche attimo tutto dovesse ritornare come prima e credo che questo fosse il motivo del perché tanta gente non aveva portato via mobilio e arredi, come se con quei segni il paese potesse vivere ancora. Riportare in vita Apice “vecchia” non significa essere nostalgici di un passato perduto, ma vuol dire ritrovare momenti di intimità, di felicità, riscattare un mondo sommerso di potenzialità incompiute, suscettibili di future realizzazioni. In ogni porta chiusa o casa abbandonata c’è il ricordo di persone che chiedono ascolto: i loro volti, le loro storie devono diventare un luogo in cui continuiamo a proteggerci e a riconoscerci. C’è bisogno di stabilire legami concreti tra passato e presente e custodire tracce per un futuro fecondo e totalmente nuovo.                                                                                                             Salvatore Monetti


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Categoria STORIA e FILOSOFIA