Viaggio del Duca Di Rivas in Costiera Amalfitana

Così descrive il suo viaggio in costiera amalfitana una delle persone più rappresentative del mondo Spagnuolo dell’ottocento nel campo della pittura, della poesia e della prosa: Ángel de Saavedra, Duca di Rivas. Fu un grande patriota: lottò contro Napoleone, che aveva invaso la Spagna, conobbe trionfi, persecuzioni ed esilio. Dal 1844 al 1850 fu ambasciatore di Spagna presso il re di Napoli.

“Alle nove di una splendida mattinata di maggio, in cui un trasparente velo di nubi temprava l’ardore del sole, mentre una leggera brezza marina rinfrescava l’atmosfera, partimmo da Napoli colla ferrovia recentemente impiantata, che conduce a Nocera.

Il convoglio scivolava rapido, lasciandosi dietro la capitale magnifica e il suo frequentato porto, dove si trova parte della bella squadra napoletana con un gran numero di navi da guerra, e dove si veggono riuniti tanti vapori mercantili di differenti nazioni.

Seguendo la costa passammo per Portici, sotto le cui case giace, ravvolta dalla lava del Vesuvio, la antica Ercolano; per la Torre del Greco, villaggio fondato sopra altri due, vittime delle eruzioni del vulcano, e per la Torre della Annunziata, dove, lasciando la spiaggia, ci internammo nei dintorni di Pompei, attraversando una campagna deliziosa, coltivata con cura. La sua ferace produzione e i suoi vigneti che formano padiglioni, festoni e ghirlande intrecciate con gli alberi lussureggianti e corpulenti di cui è seminata la pianura, costituiscono un ricco ed ameno paesaggio, di cui è ultimo termine, a sinistra, il maestoso Vesuvio, coi suoi fianchi di smeraldo e il suo pennacchio biancastro di fumo e di cenere; e di fronte e a destra, alte montagne coperte di macchie e di villette. In un’ora arrivammo a Pagani: cioè percorremmo sei miglia spagnuole, e in questo tempo non lasciarono di mortificarmi le dolorose riflessioni cui dava luogo il vedere in un paese che certamente non ha fama di essere molto opulento, strade ferrate, flotta, gran numero di navi a vapore, terre coltivate con assiduità e maestria, ville, gendarmi a piedi e a cavallo, perfettamente equipaggiati, a custodia delle strade pubbliche, cittadine amene pulite e ben lastricate, industria, traffico, movimento e vita, mentre nella nostra patria sì grande, sì potente, sì ricca, e con tanti elementi per essere una delle prime nazioni d’Europa, nulla v’è di tutto questo, perché essa perde tempo e vien distruggendosi visibilmente in inutili controversie e in odiosi personalismi.

A Pagani noleggiammo dei cavalli locali, piccoli ma forti e focosi, e con essi ci arrampicammo per una altissima montagna i cui erti fianchi sono coperti di castagni e di folti sterpeti. Fra di essi serpeggia una buona mulattiera costruita con molta perizia e dalle cui svolte si scoprono mirabili punti di vista. Sulla vetta della montagna spicca la torre di Chiunzi, osservatorio circolare antichissimo, che oggi serve di nido agli avvoltoi e di bersaglio alle tempeste, giacché si vedono le frequenti tracce del fulmine nei suoi blocchi di pietra. Passando per un’osteria ai piedi del torrione diroccato, ci separammo dalla vista del Vesuvio, e, doppiando la cima, iniziammo la discesa per coste meno ripide, attraverso graziose colline coperte di vegetazione, attraverso vigne sviluppatissime, formanti sempre festoni allacciati agli alberi, e attraverso folti boschi di alti faggi e di fronzuti castagni, e così sboccammo nella valle di Tramonti. La fervida fantasia del più fecondo artista non potrebbe immaginare un luogo sì delizioso e pittoresco. Ambo i versanti sono popolati di leggiadre casine di campagna, di appezzamenti di terra intelligentemente coltivati, di alberi corpulenti e frondosissimi. Corre nel fondo della gola un copioso torrente, sfruttato da numerose cartiere stabilite lì. La varietà ed eleganza delle costruzioni con cui comunicano, e i terrapieni e gli acquedotti capricciosi, che van da un lato all’altro per contenere o condurre le acque, le cateratte e i precipizi formati dalle acque superflue, e il frastuono delle ruote delle macchine idrauliche, e lo strepito della moltitudine di operai impiegati in quelle manifatture formano un insieme così caratteristico, così vario, così sorprendente che è impossibile darne un’idea in una fredda descrizione.        

Maiori, villaggio di bei casamenti a due e tre piani, con strade assai pulite e molto ben pavimentate, è collocato all’imbocco di questa valle e sulle sponde del mare. Una piccola cala offre ricovero alle sue barche da pesca. Lo attraversammo, e il golfo di Salerno si presentò alla nostra vista, deserto, triste e maestoso. Prendendo a destra una magnifica massicciata costruita a mezza costa delle montagne strapiombanti che formano la costiera, e molto simile a quella che conduce da Caleglia a Barcellona, pervenimmo a Minori, villaggetto della stessa fisionomia del precedente, situato anch’esso alle foci di un’amena valle.

Due miglia dopo, e quasi nella stessa giacitura, attraversammo Atrani, paese più grande di quelli nominati prima e presunta patria del famoso Masaniello. La gente designa come casa di lui un’abitazione tuttora occupata e di aspetto povero ma lindo, che si leva su una erta balza, fra altre quasi uguali che popolano quei monti.              

Svoltammo indi una punta dove sono i resti di un antico castelletto, e giungemmo alla famosa città di Amalfi, che fu rivale di Pisa ed emula della opulenta Genova e della potente Venezia; che ebbe tanta parte nelle Crociate durante le quali fu fondatrice del celebre ordine di San Giovanni di Gerusalemme, che meritò infine il fastoso epiteto di Regina dei mari. Ma quanto son mutati i tempi! Non si concepisce nemmeno come un piccolo paese, che può appena raccogliere settemila abitanti, collocato nella stretta gola di un’angusta valle, dove c’è solo scarso spazio per gli attuali fabbricati, circondato di erti ed alti monti, con una ridottissima cala, senza fondale e senza difesa, aperta ai venti di ponente e di sud violentissimi in questi mari, abbia potuto essere una città di 60.000 abitanti, il magazzino delle ricchezze del mondo, e uno dei porti più famosi e più frequentati dell’antichità. No, non vi si scorge alcuna di quelle tracce della opulenza e del potere che si trovano in altre città decadute e dìrute. Non vi è nemmeno una sola casa antica, non ce n’è alcuna vasta ed ampia, non esistono neppure frammenti di mura, di fondachi, di moli, di terrapieni; di quelle opere infine indispensabili per ogni porto mercantile, a difesa dei vascelli, a riparo delle mercanzie, a tutela della ricchezza, a dimora della opulenza. Costa perfino fatica il credere che lì vi sia mai stato potere e prosperità. In Pisa decaduta e quasi deserta si vedono lunghe ed ampie vie, superbi palazzi, robuste torri e mura, magnifici ponti, moli, argini, infine, lo scheletro di un gigante; ma ad Amalfi....... Etiam periere ruinae.  Non esistono lì se non due archi diruti presso la marina, e il vestibolo della cattedrale dove si sale per un’ampia scalinata moderna di quaranta gradini.

            Il cicerone che ci accompagnava capì senza dubbio queste riflessioni e ci disse con molta gravità che la città antica era fondata sul mare e che questo se l’era inghiottita: avvenimento di cui la storia non parla e del quale sarebbero rimaste tracce nel mare stesso; e, proprio al contrario, la piccola cala di Amalfi offre in tutta la sua estensione un fondo liscio, di ciottoli e d’arena, senza il menomo indizio di fondazioni antiche. In questa città si trovarono per caso, ed in seguito ad un saccheggio nell’anno 1135, le Pandette di Giustiniano, ed in essa nacque Flavio Gioia, inventore della bussola. Sembra indubbio che Amalfi, fondata in epoca molto remota, fu occupata dai Saraceni la prima volta che invasero l’Italia; che i tempi del suo maggior splendore furono i secoli X e XI; che la conquistò Ruggiero, duca di Calabria, e che la decadenza cominciò con le accanite guerre sostenute coi salernitani, suoi vicini, e giunse a tal grado di annichilamento e di sfortuna, che la città fu completamente distrutta da banditi, i quali due volte la diedero alle fiamme e la saccheggiarono. E poiché il suo territorio non produce nulla, la città morì col rompersi dei suoi telai, col rovinare dei suoi fondachi, col cessar di offrire sicurezza ai mercanti.

            Alla destra di Amalfi, sopra rocce elevate che guardano il mare, c’è un convento di Cappuccini, al quale si sale per una stretta e penosa scalinata di 270 gradini. Vi fummo sull’annottare, e mentre ci avvicinavamo udimmo le note dell’organo che facevano un effetto meraviglioso tra quelle rupi, le cui forme rudi ed i cui contorni colossali presentavano una massa imponente e confusa, alla incerta luce del crepuscolo moribondo: ricordammo alcune scene del Don Alvaro, ed entrammo nella povera e meschina chiesa quando i frati, in coro, cantavano compieta. La possente armonia del fragoroso strumento e il canto della comunità non mancarono di commuoverci, a quell’ora e in quel devoto, segregato ed umile santuario. Subito il guardiano seppe che c’erano dei forestieri nel suo convento, e inviò due frati ad ossequiarci e a fare gli onori di casa. Ci offrirono un rinfresco, che non accettammo, ci mostrarono un chiostro antichissimo, dalle ogive rudi e piccole sostenute da colonnine geminate di stile arabo, poi, alla luce di una torcia a vento, una magnifica e capace grotta che è nella montagna, e quando ci congedammo mandarono un laico che ci facesse luce con un fanaletto per scendere la gradinata. Non era certo questo laico il fratello Melitone, perché non schiuse le labbra nel lungo tempo che impiegammo per la discesa.

            Avvicinandoci alla marina, sentimmo un mandolino, suonato non male, e un rumore di allegra gazzarra; ma siccome la notte era oscurissima, da lontano non potemmo intravedere né il suonatore né coloro che causavano quel chiasso. Giunti alla spiaggia e congedandoci da chi ci aveva fatto luce, notammo che il musicante stava in una barca tirata a secco e che attorno a lui dei marinai e delle ragazze del popolo ballavano secondo la loro usanza. Tutto ciò era nel buio, e dava quindi alla festa un’apparenza assai fantastica.

            Entrammo in un mediocre albergo, dove divorammo una abominevole cena, e ci abbandonammo, sfiniti dalla stanchezza, ad un profondo sonno.

            Il giorno seguente, alle otto della mattina, andammo a vedere l’interno della valle al cui sbocco è situata Amalfi, chiamata Valle dei Molini. Quantunque di minore estensione è assai simile a quella di Tramonti, ed è anche popolata di fabbriche di carta, ed altrettanto amena e pittoresca, benché non così ferace e produttiva. Indi su asini con sella e briglia all'inglese ci recammo ad Atrani (l’ultimo villaggio che avevamo attraversato la sera precedente) e internandoci in esso abbandonammo le nostre umili cavalcature per salire a piedi, con gran caldo e fatica, una penosissima scalinata di due miglia di lunghezza che monta a Ravello, paesetto fondato su una delle eminenze più elevate di quel monte e da dove si abbraccia una spaziosa e magnifica vista. Vi si incontrano, fra le umili case moderne, importanti vestigi della effimera dominazione saracena; e in vari frammenti di mura dirute, e in un cortile che si conserva quasi intero, e in altri ruderi interessanti, riconobbi l’infanzia di quell’arte, che apparve poi con tanto splendore nella nostra Cattedrale di Cordova, nella Giralda di Siviglia, e negli incantati palazzi di Granata. Vi sono nella chiesa di Ravello delle porte di bronzo assai notevoli, un ambone quadrato e spazioso rivestito di mosaico e poggiante su sei colonne le cui basi sono rozzi leoni di marmo, e diverse lapide di varie epoche. Lasciammo quella alpestre località, e discendendo a gran fatica la interminabile scala, tornammo a cavalcare i nostri asini inglesizzati e ci recammo di nuovo ad Amalfi. Mangiammo con appetito, schiacciammo un lungo pisolino e alle tre pomeridiane partimmo per Salerno. Esiste una strada a metà costruita, che seguendo le sinuosità della dirupata costa va da una città all’altra, ma è lunga e penosa, e preferimmo fare il viaggio per mare. Prendemmo quindi una leggera barca a quattro remi, abbondantemente dipinta di bianco, verde e rosso, colla sua pulita tenda di cotonina bianca. Uscendo dall’albergo, due padri cappuccini dall’aspetto davvero molto venerabile ci chiesero con umiltà che facessimo loro la carità di condurli a Salerno. Acconsentimmo di buon grado e scendemmo con essi alla marina. Quella che si chiamò Regina dei Mari è giunta a tale stato di decadenza, che non ha nemmeno un misero pontile di legno nella sua spiaggia arenosa ragion per cui l’imbarco fu discretamente incomodo e sgradevole, avendo dovuto effettuarlo, sotto pena di entrar nell’acqua o per meglio dire nella melma fino alla cintura, sui robusti omeri dei marinai.

            Il mare sembrava di latte, il cielo era fulgido e puro, attraversato da alcune nuvolette luminose, l’atmosfera in calma senza che la rinfrescasse la più lieve brezzolina. La barca spinta dai quattro remi, tuffati in cadenza dalle robuste braccia dei quattro marinai con camicie bianche come la neve, calzoncini corti listati di azzurro e berretti rossi, come quelli che usano i catalani, scivolava rapida nel golfo cristallino, per doppiare la punta dell’Orso. Avevamo a sinistra, a circa due miglia di distanza, la costa scoscesa, di altissimi monti coperti di verde e screziati di bianche abitazioni rustiche, e Atrani e Minori e Maiori e altri ameni paeselli collocati nelle gole delle valli, e alla destra la immensità del mare che costituiva l’orizzonte e si confondeva col cielo per mezzo di una nuvola vaporosa, mentre tutto formava un quadro magnifico e malinconico. I marinai, come per non perdere la lena, intonarono una canzone in dialetto napoletano, con voci distinte per nulla discordanti, con un tono languido e monotono molto simile a quello delle “ playras” che si cantano in Andalusia. I due cappuccini tiraron fuori i loro breviari e con voce sommessa recitarono le loro orazioni; e noi sognavamo svegli e volavamo coll’immaginazione per mille fantastiche regioni, immersi nel più profondo silenzio. Sembrava quella barca in mezzo al deserto golfo di Salerno l’emblema dei differenti destini che la Provvidenza ha segnato all’uomo: quello del lavoro, quello dell’orazione e quello del pensiero; e tutti diretti dallo stesso impulso e tutti incamminati al medesimo fine. Dopo due ore di traversata, quando già i marinai stanchi e madidi di sudore lanciavano un profondo lamento ogni volta che spingevano i remi, quasi a rianimarsi e a vogare a tempo; quando i monaci, finite le preghiere e terminata per quel giorno la loro missione sulla terra, dormicchiavano senza curarsi della loro sorte, e quando noi, al postutto uomini del mondo e del piacere, giudicavamo, già impazienti, che quel viaggio durava molto, doppiammo la punta dell’Orso e poi quella del Tumulo, e ci trovammo a Salerno.”

 GIOVANNI CALABRITTO - Un viaggio alle rovine di Pesto (traduzione dallo spagnuolo) ARCHIVIO STORICO PER LA PROVINCIA DI SALERNO, ANNO VI - I DELLA NUOVA SERIE FASC. I = AGOSTO - SETTEMBRE 1932-X

Dal Libro:  COSTIERA AMALFITANA La Nostalgia di un Sogno VOLUME I, Salvatore Monetti, 2021