Vecchia, ammalata, distrutta anzi...

  Vecchia, ammalata, distrutta anzi, consapevole che la fine stava precipitando su di lei, la mamma si sarebbe accontentata, per essere un poco meno triste, che io fossi venuto a pranzo a casa. Magari per non dire una parola, ingrugnato magari per le mie maledette faccende di ogni genere. Ma lei, dal letto, perché non poteva muoversi dal letto, avrebbe saputo che io ero di là in tinello e si sarebbe consolata.

«A distanza di anni, ancora mi domando che cosa si dicevano i due autisti del furgone scuro mentre trasportavano la mia mamma morta al cimitero lontano». Comincia così il racconto autobiografico I due autisti di quello straordinario scrittore che è stato Dino Buzzati (1906-1972). Da quelle pagine ho voluto estrarre alcune righe che delineano la riflessione che il figlio fa mentre si sta trasferendo la salma della madre da Milano, ove i due vivevano insieme, a Belluno, la terra d'origine di entrambi, per la sepoltura.    
Proprio in questi giorni di quiete, quando non ci sono alibi di lavoro, di impegni, di fretta, bisognerebbe ripensare a quante volte abbiamo amputato le nostre relazioni familiari e umane. Anziché dire una parola, stare un momento insieme ai vecchi genitori, ascoltare una persona cara, siamo corsi altrove, dopo un saluto breve e forse seccato. «Io andavo in giro per Milano - confessa Buzzati - ridendo e scherzando con gli amici, idiota, mentre l'unica creatura capace di comprendermi e di amarmi, l'unico cuore capace di sanguinare per me stava morendo». Vorrei sottolineare un dato a cui poco si bada: solo dopo la morte della persona cara, ci pentiamo delle parole che non abbiamo detto, del bene che non abbiamo espresso, della vicinanza che abbiamo negato. Ma allora rimane solo il rimorso o il rimpianto.