ANNA GAROFALO
Le donne, il voto, la pace negli scritti e nelle conversazioni radiofoniche di Anna Garofalo (1944-1950)
di Bruna Bianchi(1)
Le schede che ci arrivano a casa e che ci invitano con il nostro nome, cognome e paternità a compiere il nostro dovere di cittadine hanno un’autorità silenziosa e perentoria. Le rigiriamo tra le mani e ci sembrano più preziose delle tessere del pane […] Per la prima volta si domanda la nostra opinione. Così avessimo potuto esprimerla quando si trattava di pace e di guerra(2).
Il decreto sul voto e la mobilitazione femminile
Le donne italiane ritengono di aver acquistato il diritto di partecipare pienamente alla vita pubblica del paese attraverso le dure sofferenze sopportate durante le guerre scatenate dal fascismo e soprattutto attraverso la coraggiosa collaborazione alla lotta di liberazione. […] L’esclusione delle donne da questo diritto costituirebbe una stridente contraddizione coi principi democratici, quali vengono interpretati dalla totalità dei paesi civili(3).
Così si leggeva nel promemoria inviato al governo Bonomi il 7 ottobre 1944 dall’Unione donne italiane (Udi), organizzazione nata nel settembre dello stesso anno, e da due associazioni emancipazioniste sorte prima della dittatura: l’Alleanza pro-suffragio e la Fildis (Federazione italiana laureate e diplomate Istituti superiori). Con il promemoria questo gruppo di donne voleva evitare che, dopo le dichiarazioni di Togliatti e del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana in favore del voto alle donne, questo arrivasse come una concessione, non già come una conquista(4). Un decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944 aveva stabilito che dopo la liberazione del territorio nazionale una Assemblea costituente sarebbe stata eletta a suffragio universale e rimandava a un successivo decreto le modalità di attuazione. Per sollecitare il provvedimento e “per organizzare la settimana nazionale per il voto alle donne”, il 25 ottobre 1944 l’Udi convocò a Roma una riunione a cui parteciparono il Comitato femminile della Democrazia cristiana, il Gruppo femminile del partito repubblicano, l’Alleanza Pro-suffragio e la Fildis. Dalla riunione nacque il Comitato pro-voto che produsse e diffuse un opuscolo di 16 pagine dal titolo Le donne italiane hanno diritto al voto.
L’opuscolo si rivolgeva alle “mamme operaie, alle contadine, alle impiegate, alle professioniste” e voleva offrire loro un “mezzo per rispondere” a chi ancora contrastava l’estensione del voto alle donne; esso inoltre ricostruiva la storia dell’antica soggezione della donna, del concetto “che di lei aveva fatto un passivo strumento della volontà maschile”(5), passava in rapida rassegna le argomentazioni di volta in volta avanzate per negare il diritto di voto, rivendicava con forza quel diritto conquistato per “aver salvato e difeso il paese” durante la guerra. “L’Italia non può cominciare la sua nuova vita democratica escludendo le donne dal primo atto democratico: le elezioni amministrative”(6).
Il Comitato pro-voto si impegnò in una intensa attività di raccoltafrme e il 27
ottobre inviò una protesta al Cln nazionale sottoscritta dalle rappresentanti dei sei partiti che ne facevano parte.
Benché i partiti del Cln si siano espressi in più occasioni in senso favorevole alla estensione dei diritti politici alle donne, il governo, nel dare inizio alle operazioni preparatorie […] ha mostrato sino a oggi di voler assolutamente ignorare questo importante aspetto di democratizzazione del paese(7).
Il suffragio universale sarà sancito qualche mese più tardi con il decreto luogotenenziale del 1° febbraio 1945:Estensione alla donne del diritto di voto.
Il decreto, tuttavia, conteneva importanti limitazioni all’esercizio di quel diritto: escludeva le prostitute che esercitavano al di fuori delle case chiuse (clausola abrogata nel 1947), prevedeva solo l’elettorato passivo (la eleggibilità delle donne sarà sancita il 10 marzo 1946).
Il voto arrivò dunque senza neppure una minima eco delle battaglie femministe, delle rifessioni delle donne sulla loro stessa cittadinanza e dei dibattiti parlamentari che si erano svolti nei decenni precedenti a livello nazionale e internazionale(8). Ma il limite più vistoso fu la mancanza assoluta di discussione del decreto.
La motivazione decisiva che aveva condotto i partiti maggiori ad avanzare la richiesta del voto alle donne, la Democrazia cristiana e il Partito comunista, fu il desiderio di misurare il proprio seguito, radicarsi nella nuova democrazia e rafforzare le proprie strutture organizzative. Le due grandi organizzazioni di massa femminili, infatti, sorte quasi contemporaneamente nell’autunno del 1944, non erano state il risultato di una spinta spontanea, bensì di strategie elaborate nell’imminenza delle elezioni. Questa dipendenza dai partiti e il modo in cui fu intesa e perseguita la democrazia, non attraverso la rivendicazione dei diritti di cittadinanza, bensì attraverso l’adesione ai partiti, spiegano la debolezza della cittadinanza femminile al momento della concessione del voto.
Per molto tempo ai diritti politici non avrebbe corrisposto la pienezza dei diritti civili nella sfera del lavoro, della famiglia, nelle carriere e nella sfera pubblica.
L’enorme mobilitazione femminile nelle molteplici forme della Resistenza civile al Nord, delle lotte sociali per il controllo dei prezzi e dell’annona, iniziate al Sud già nel 1943 e sviluppatesi subito dopo la Liberazione nel resto del paese, della vastissima rete di iniziative assistenziali che si organizzarono a Roma e via via nelle regioni liberate tra il 1944 e il 1946, non riuscirà a tradursi […] in una nuova presenza femminile sul terreno politico, e ancor meno in una ridefnizione femminile della politica (9).
Sarà presto evidente inoltre che i tradizionali pregiudizi non erano stati superati, che l’antico nesso tra cittadinanza e il diritto/dovere di portare le armi era stato rafforzato dall’esperienza resistenziale e avrebbe ostacolato una rifessione sulla nonviolenza, che alle donne non vennero pienamente riconosciute le qualità essenziali che defniscono il moderno concetto di individuo, ovvero l’indipendenza e il pieno possesso della propria persona.
Testimone dei mutamenti intervenuti nella vita e nello stato d’animo delle donne, fne interprete dei dilemmi e delle contraddizioni della cittadinanza femminile fu la giornalista romana Anna Garofalo (1903-1965).
Da Radio Roma alla RAI
Nata a Roma da una famiglia aristocratica, nella Prima guerra mondiale, tra il 1917 e il 1918, a soli 15 anni, Anna Garofalo si offrì come infermiera volontaria in un ospedale di smistamento per mutilati.
Fu lì che nacque il mio profondo orrore per la guerra. I segni di quel tempo non si sono più cancellati in me e hanno avuto influenza sulla mia formazione spirituale che – data l’età – era ancora incompleta. M’ero buttata nel lavoro a capoftto, con l’entusiasmo generoso e con l’idealismo che tutti portavamo allora nel cuore. Ricordo le mie caviglie gonfe dopo il servizio e quell’alone di malinconia che mi restava attorno, anche quando tornavo a casa. Mi avevano afdato un certo numero di soldati ciechi. Il mio compito doveva essere quello di mettere gli occhi di vetro nelle loro povere orbite raggrinzite, al mattino, e di toglierli la sera, prima di lasciare l’ospedale. Di notte, i piccoli globi di vetro riposavano in scatole di cartone contrassegnate ognuna dal nome del soldato. Io non so come potessi scrivere senza tremare terribili frasi come questa: occhi di Silvestrini (era un alpino di venti anni a cui mancavano anche le mani). L’operazione di togliere e mettere gli occhi era delicatissima, un lavoro di precisione nel quale mi ero specializzata.
Ricordo che una volta venne una missione sanitaria francese a visitare l’ospedale e i medici entrarono nell’infermeria mentre io tenevo aperta con una mano l’orbita di un cieco e con l’altra cercavo di innestare l’occhio nel cavo vuoto. Gli uffciali mi guardarono stupefatti e si guardarono tra loro. Doveva esserci un certo contrasto fra la mia estrema giovinezza e quel macabro compito(10).
Con questa esperienza alle spalle negli anni del ventennio si avvicinò agli ambienti antifascisti di orientamento laico e scrisse per “Il Mondo”, il quotidiano diretto da Giovanni Amendola, una collaborazione presto interrotta dalla soppressione d’autorità del periodico nell’ottobre del 1926.
Nella Seconda guerra mondiale visse tutte le laceranti angosce di una madre il cui fglio era partito per la guerra, narrate nel diario che tenne in quei giorni e pubblicato nel 1945 con il titoloIn guerra si muore.
Nel dopoguerra riprese l’attività giornalistica sulla stampa di orientamento laico(11), tenne costantemente vivo l’interesse per la condizione femminile nella politica, nella società, nella cultura e nel costume, si impegnò per la pace aderendo alla Aimu, Associazione internazionale madri unite per la pace, fondata in Italia nel 1946 da Maria Bajocco Remiddi.
Dopo la liberazione di Roma, nel settembre 1944, quando “le donne italiane facevano lafla alle fontane, tagliavano i bollini delle tessere e cucinavano con il carbone”(12), gli alleati le affidarono la guida della trasmissioneParole di una donna di Radio Roma, allora controllata dal PWB (Psychological Warfare Branch) creato dagli americani per riorganizzare la comunicazione pubblica nei territori liberati. Anna Garofalo fu la prima conduttrice a potersi rivolgere a un pubblico femminile molto vasto. Tre giorni alla settimana, per un quarto d’ora, in un orario di grande ascolto, affrontò liberamente tutti i temi legati alla condizione femminile di cui non si parlava ancora apertamente. Oltre al diritto di voto, al diritto al lavoro, all’uguaglianza nel matrimonio, le conversazioni toccarono i temi del divorzio, della prostituzione, dell’adulterio, deifgli illegittimi, della violenza domestica. Una libertà che non avrà più a guerra conclusa all’interno della RAI. Quell’esperienza verrà ricostruita e narrata in L’Italiana in Italia, un volume pubblicato nel 1956. Così il 9 febbraio 1955 presentava all’editore il suo lavoro: Il mio lavoro è stato iniziato e spero possa avere un buon ritmo. Ho creduto di dare ad esso forma di diario, prendendo lo spunto, anzi l’avvio, da quel settembre 1944 nel quale, inviata del PWB, iniziai alla radio di Roma una rubrica trisettimanale dal titolo:Parole di una donna,che lei forse ricorderà e che, in sette anni ininterrotti, raggiunse la somma di più di
1.500 emissioni. Furono anni di esperienza intensa perché, oltre a parlare personalmente, dirigevo tutte le trasmissioni femminili. Misi al microfono tutte le donne che conoscevo dei vari partiti: Rita Montagnana, Giuliana Nenni, Rosetta Longo, Iosette Lupinacci, Maria Federici, Marisa Rodanò, Angela Cingolani, Teresa Scelba, Ester Parri, la signora Calasso, Maria Calogero e tante altre. Erano allora tutte nell’Unione Donne Italiane, che per prime le cattoliche abbandonarono, fondando il Cif. A poco a poco uscirono le altre e rimasero nell’Udi solo le socialcomuniste. Fu un peccato, perché un fronte unico femminile sarebbe stato utile per la lotta politica. Abbiamo in questi giorni celebrato i dieci anni della concessione del voto e nemmeno in quest’occasione, che riguardava tutte indistintamente le donne, si è potuta raggiungere l’unità. Tutte queste cose bisogna dirle e io perortuna mi sono trovata dentro dal primo momento(13).
La trasmissione ospitò intellettuali, militanti e personalità politiche, diede voce anche alle donne semplici, “quelle che non conosciamo, che non incontriamo” (14), attraverso le lettere che le inviavano e che ella leggeva e commentava.Parole di una donna,nei suoi primi mesi di vita ascoltata di nascosto dalle donne del nord ancora occupato, si presentava come una conversazione tra amici che “attraversano momenti gravi e cercano insieme il modo di venirne fuori”(15). E come si parlava tra amici, il linguaggio era chiaro, schietto e concreto. “Quando la guerra sarà fnita – aveva scritto inIn guerra si muore –avremo sete di un linguaggio piano, civile, pacato […] adoreremo il buon senso, la misura, la cortesia”(16). Era questa la prima responsabilità dei giornalisti.
Il compito di coloro che scrivono, che parlano alla radio, che convogliano le grandi correnti pensiero è molto importante e la loro responsabilità si accresce molto di più quando la situazione è delicata(17).
La prima conversazione affrontò il tema dell’indipendenza femminile maturata dalle nuove responsabilità che le donne avevano dovuto assumersi durante la guerra. Essa prese le mosse da una lettera di una donna che, in attesa del ritorno del marito prigioniero, si diceva certa che non avrebbe più potuto tollerare il suo atteggiamento protettivo o perentorio. “Dopo tutto quello che ho visto e fatto mi affiancherò a lui con una sicurezza e una indipendenza che non so come egli sopporterà”.
Una guerra, ho concluso, si rifette anche nei rapporti umani, anche nell’amore
e il mito dell’infallibilità maschile è crollato, insieme ai ponti e alle case […]. Si sente nel chiuso delleamiglie qualche cosa che scricchiola, il bisogno di aprire lefnestre, di dire la verità, la stanchezza dei luoghi comuni”(18).
Le lettere, le telefonate, le richieste di incontri che sempre più numerose pervenivano alla radio, ponevano in primo piano la questione della povertà, delle difficoltà della vita, della prostituzione.
Quando mi scrivono, sempre parlano di scarpe rotte, di calze sflate, di freddo, di buio, della pena di non poter samare convenientemente i lorofgli. […] Se nominano gli uomini assenti o vicini, molte lo fanno per lagnarsi della loro incomprensione, per dolersi che siano disoccupati, avviliti, inerti e non portino alcun sollievo alle difficoltà della famiglia. La crisi degli affetti, dei rapporti amorosi è in pieno sviluppo e si inserisce nel più vasto quadro del disastro nazionale(19).
Pertanto, anche la “coppia umana”, a parere della giornalista romana, avrebbe dovuto essere ricostruita nel dopoguerra.
Allafne di una conversazione sul desiderio di autonomia e autodeterminazione
delle donne nell’annunciatrice che le stava di fronte colse uno sguardo vivo, che esprimeva consenso. “Mi è parso che fosse lo sguardo di tutte le donne in ascolto” (20). Quell’incoraggiamento era particolarmente importante in un momento in cui gli attacchi dei giornali cattolici e di destra, che vedevano l’istituzione familiare minacciata dai suoi interventi, si moltiplicavano e le ricordavano quanto illusoria fosse la speranza di una rapida affermazione della democrazia.
“Prima o poi impareremo a nuotare”
Il tema del suffragio ricoprì sempre un posto centrale nella trasmissione che si preoccupò di illustrare con semplicità gli obiettivi e la petizione del Comitato pro- voto. Una delle prime ospiti fu la presidente dell’Udi, Rita Montagnana, poche settimane dopo la presentazione della petizione al governo, quando, alla vigilia dell’appuntamento elettorale, le voci sull’immaturità femminile si erano fatte insistenti e offensive.
Chi erano quegli uomini che si opponevano al voto alle donne?˗si chiedeva Anna Garofalo˗Quelli che erano diventati adulti durante la dittatura, che della democrazia ignoravano tutto e che, come le donne, avrebbero faticato a orientarsi in un regime di libertà.
È probabile che per le prime volte le donne voteranno male, alla cieca o sulla scia di suggestioni, ma non è escluso che lo stesso possa succedere anche agli uomini, anche se decidono da soli. Come formare la propria coscienza di cittadino se non esercitandosi, allenandosi al gioco democratico? Come cercar di capire se non con l’azione?
I pescatori, quando sono in barca al largo, buttano in mare i fgli perché, attraverso i movimenti istintivi che essi fanno per tenersi a galla, imparino a nuotare. Bisognerà dunque buttarsi in acqua, senza alcun pescatore che sorvegli
le nostre mosse. Prima o poi impareremo a nuotare(21).
I diritti civili sarebbero stati conquistati con fatica, in particolare nell’ambito familiare e lavorativo; la donna infatti si trovava a doversi inserire in una società che nelle sue molteplici espressioni era stata pensata, voluta e costruita sulla base delle scelte e delle esigenze maschili.
Solo nel corso degli anni l’esercizio delle responsabilità avrebbe liberato le donne dalle catene delle antiche obbedienze.
Si può essere sicuri che, almeno da principio, le donne non si varranno della loro posizione, ancora incredule del loro diritto, incerte, non abituate a scegliere, a decidere, se non nell’ambito domestico. Peseranno su di loro la struttura tradizionale della società e il cerchio delle antiche obbedienze(22).
Valutando l’apporto che le donne avrebbero portato nella competizione elettorale, i partiti democristiano e comunista si preoccupavano di indirizzare il loro voto, il primo cercando di estendere l’influenza della Chiesa nel mondo femminile, il secondo sottoponendo le militanti ad una “intensa propaganda”, imponendo tattiche e strategie con “ordini dall’alto”. In entrambi i casi queste manovre avrebbero reso più difficile il cammino verso una vera emancipazione.
Eppure quel voto era decisivo per contrastare il pericolo di guerre future, imprese dissennate sulle quali le donne non erano state consultate e valeva la pena impegnarsi con tutte le proprie forze sorrette dalla fducia che il clima di trepidazione che si respirò di fronte ai seggi elettorali il giorno del voto aveva trasmesso.
Lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali. Sembra di essere tornate alle code per l’acqua, per i generi razionati. Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, […] stringiamo le schede elettorali come biglietti d’amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi e molte tasche gonfe per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomini e donne hanno un tono diverso, alla pari(23).
All’emozione di quel giorno subentrò presto l’amarezza per l’esito delle urne: le elette alla Costituente furono meno del 4%. Nonostante i ripetuti appelli comparsi sull’organo dell’Udi, le donne non avevano votato per le donne. Esse˗rifette Anna Garofalo˗sifdano delle amiche quando devono confessare un segreto amoroso o una bega famigliare, ma non le scelgono quando hanno bisogno delle cure mediche per i propri fgli o quando hanno bisogno di assistenza legale. “Anche questo può spiegarsi con la poca fducia che le donne hanno in loro stesse e quindi nelle altre
˗a causa della situazione di inferiorità in cui sono state tenute per troppo tempo” (24). Se le donne stesse non avevano fducia nelle donne non ci si poteva stupire della scarsa considerazione di cui erano oggetto le nuove elette. Nei corridoi del palazzo le investiva una “morbosa e un poco mortificante curiosità”; in aula, quando prendevano la parola, una sorta di “sfiducia preventiva” faceva sì che i deputati fossero presi dall’impellente desiderio di un caffè. I giornali non facevano che alludere ai loro vestiti e alle loro acconciature o alle pentole inutilizzate e alle calzette nonfnite che giacevano nelle case delle neoelette.
Le solite mortificanti prevenzioni nei riguardi delle donne venivano espresse nel linguaggio più volgare. Quando, nel 1947, alla Costituente si discusse dell’ammissione delle donne alla Magistratura, approvata in Francia all’unanimità già nel giugno 1945, nell’aula si ascoltarono le solite “vecchie, abusate parole”: le donne sono emotive, passionali, non possono giudicare in modo imparziale come gli uomini e la proposta venne respinta(25). Come ha scritto Anna Rossi-Doria, era “una sorta di vendetta postuma del decreto sul voto”(26). Ancora nel 1957 così si esprimeva il costituzionalista Ezio Crisafulli: Anche in molti, che non sono affatto o non si considerano retrivi e codini, l’idea di essere giudicati da donne provoca un senso di fastidio, nel quale confluiscono moventi irrazionali, sedimentati da generazioni nel fondo dei nostri animi, e persino veri e propri “complessi” ancestrali; né ho ritegno a confessare che una tale reazione istintiva ed emozionale la conosco bene, io stesso, per esperienza diretta(27).
I toni con cui si parlava delle donne e dei loro diritti rivelava che la loro condizione non rifletteva solo una condizione di inferiorità, ma si trattava di una vera e propria discriminazione razziale.
L’impegno per la pace
Immediatamente dopo la consultazione elettorale l’intesa che le donne avevano trovato al di là delle divergenze politiche, si ruppe. La frattura avvenne sulla questione della pace e della guerra. Nella primavera del 1946 l’Udi promosse la creazione della sezione italiana della Federazione democratica internazionale femminile (Fif) fondata nel novembre del 1945 in Francia e presieduta da Eugenie Cotton, una organizzazione verticistica e apertamenteflosovietica che vedeva nell’URSS l’unica veraorza di pace e guardava alle “pacifste borghesi”, e in genere al pacifsmo radicale nonviolento, con ostilità e disprezzo(28).
L’adesione delle organizzazioni femminili della sinistra alla Fif e l’appiattimento sulle direttive del Pci causò una lacerazione profonda.
Il fronte delle donne comincia a sfaldarsi. L’Udi ha aderito alla Federazione internazionale democratica femminile˗di cui è a capo Eugénie Cotton˗di precisa ispirazione comunista, e le cattoliche, per prime, l’abbandonano, fondando il Cif (Centro italiano femminile) con a capo Maria Federici.
La melagrana si spacca in due ed è un cattivo presagio. Il Cif, secondo il suo statuto, si propone di raccogliere le “forze femminili cristianamente ispirate” e viene posto sotto il patronato ideale di Santa Caterina da Siena(29).
Anche tutte le altre associazioni che componevano la “melagrana” ripresero la loro autonomia. Ora le varie organizzazioni avrebbero assunto in maniera più accentuata rispetto al passato il carattere di emanazione dei partiti, avrebbero lavorato ognuna per proprio conto e “sarebbero andate incontro a diffcoltà e confusioni quando si fosse trattato di proporre la stessa cosa con parole diverse”.
Le vecchie femministe, come Teresita Santedeschi Scelba della Alleanza pro- suffragio e Bice Crova della Fildis, sarebbero rimaste isolate perché non legate ai partiti. Ricorderà Teresita Santedeschi Scelba:
Malgrado che sia l’Unione donne italiane che il Centro italiano femminile si dicessero indipendenti dai partiti politici, per le loro origini e per il carattere che andavano assumendo, non si poté impedire che venissero date loro delle etichette […]. Le vecchie associazioni, libere da ideologie, forti soltanto del loro prestigio e della loro indipendenza, rimanevano schiacciate tra queste dueorze e riuscivano con diffcoltà a farsi sentire dal grande pubblico malgrado la competenza acquistata in tanti anni di lavoro e il sostegno dell’Organizzazione delle Nazioni unite cui esse aderivano(30).
Nel 1946 Anna Garofalo si unì all’Aimu, un’associazione di donne per la pace indipendente fondata sui valori della cura e della protezione della vita, la repulsione della violenza e animata da spirito schiettamente internazionalista che nel 1957 confuirà nellaWomen’s International League for Peace and Freedom(Wilpf) (31). Fin dalla nascita dell’associazione Anna Garofalo collaborò con Maria Remiddi, la fondatrice, con cui strinse rapporti di amicizia, e con Marina Della Seta(32).
È venuta a trovarmi Maria Remiddi, un’insegnate, laureata in lettere, di idee liberali, che ascolta regolarmenteParole di una donna. Mi ha parlato a lungo di una associazione internazionale di madri unite per la pace, di cui si èatta promotrice […]. Mi accorgo che sotto la patina di dolcezza della donna che mi parla c’è una volontàerma e un bagaglio di ricordi di guerra amari, scottanti. È stata sfollata nelle Marche, con tre bambine piccole, ha avuto la casa occupata dai tedeschi, è stata testimone di violenze e rapine. È decisa a diendere come può i suoifgli e ifgli degli altri da nuove avventure. “Le madri di tutto il mondo la pensano come me, come noi […] Quando avremo il voto butteremo tutto il nostro peso sul piatto della pace”(33).
L’elettorato femminile era ovunque numericamente superiore a quello maschile e avrebbe potuto pesare sull’orientamento politico e influire sui temi della pace e della guerra, ma Anna Garofalo valutava la situazione con maggior cautela.
Le rispondo che teoricamente le cose stanno così, ma che bisogna fare i conti con la rassegnazione, con l’indifferenza che si impadroniscono della gente stanca, non appena la bufera è passata. La donna non è immune dal bacillo dell’eroismo, della retorica di patria e l’educazione deve essere estesa fino a lei, anche se non siede più sui banchi di scuola. Soprattutto è necessario non dimenticare, non adagiarsi e prepararsi all’ironia, alla sfducia, fnanche alla diffamazione che accompagnano le nuove idee che disturbano i vecchi privilegi(34).
Con questo spirito, all’interno dell’Aimu, nelle conversazioni radiofoniche e nei suoi contributi a varie riviste Anna Garofalo continuò a fare opera di sensibilizzazione per la pace, a promuovere un pacifismo attivo, capace di portare valori e linguaggi nuovi nella democrazia italiana.
Nel luglio 1948 recensì per “L’Italia socialista” l’opera di Maria Remiddi Il pianto di Ecuba(35), il cui tema centrale, la maternità e la guerra, aveva molte affnità con il suo In guerra si muore, pubblicato nel 1945.
Nell’opera della giornalista romana l’odio per la guerra fascista si accompagnava alla ripugnanza per tutte le guerre, come lei stessa scrisse a Gaetano Salvemini che le aveva consigliato, per la seconda edizione, di ritoccare quei passi che potevano dare l’impressione di una critica assoluta della guerra. Il volume, rispose Anna Garofalo, esprimeva la “repugnanza per tutte le guerre, repugnanza non solo materna ma di spirito libero che va oltre le frontiere e considera tutti i popoli degni ugualmente di interesse e di affetto”(36). La guerra era una mostruosa costruzione artificiale che aveva travolto tutti, donne e uomini, inclusi gli aviatori “nemici” che non era mai riuscita a odiare, neppure sotto i bombardamenti.
La notte, per la prima volta, hanno urlato le sirene […]. Per la prima volta ho provato a immaginare il volto di questo nemico: inglese? francese? che veniva a portarci morte e distruzione. Ma chi aveva detto che costui era il nemico? Io non lo odiavo. Nessuno certo lo odiava. I giovani aviatori che ci minacciavano dall’alto erano con noi travolti dall’oscura fatalità […]. Odio chi li ha portati a questo, chi li ha spinti, nella dolce notte di giugno, sopra un paese disarmato, chi li ha provocati e sfdati.
Sono certa che se potessi parlare con loro nel silenzio dei cieli, domandar loro con la voce piena di lacrime: ma perché? Li sentirei rispondere con la stessa voce, con lo stesso sguardo smarrito, con la stessa dolente, umana solidarietà: nemmeno noi lo sappiamo il perché(37).
Benché oppresse dalla stessa “oscura fatalità”, le donne che in guerra avevano dovuto mandarci i loro figli, più degli uomini avevano visto chiaro. “Odoravano l’aria, si tastavano il polso, dicevano semplicemente: non va. Come sempre, non furono interrogate”. Allora le donne italiane “avrebbero potuto rispondere solo scuotendo desolatamente la testa per dire di no, di no”(38), ma ora, che dalle sofferenze patite erano uscite completamente trasformate, avrebbero potuto fare “un fronte unico, duro, compatto contro il pericolo di guerre future”.
Le donne oggi si aggrappano alla pace con la stessa forza con cui odiarono la guerra e guardando i loro fgli nuovamente seduti alla tavolaamiliare, nuovamente addormentati nei loro letti, dicono che non se li faranno strappare dalle case un’altra volta, per correre a farsi uccidere in disperate avventure. Con questo spirito è nata l’Associazione internazionale madri unite per la pace(39).
Il tema della consapevolezza e delle responsabilità nuove delle donne italiane fu al centro del suo intervento al congresso internazionale dell’Entente mondiale des femmes pour la paix che si tenne a Parigi dal 29 settembre al 2 ottobre 1947 (40). L’Entente era un’organizzazione sorta in Francia nel 1945 che individuava nell’impegno per la pace l’obiettivo più qualificante dell’impegno politico delle donne. Le promotrici erano di per lo più di orientamento socialista cristiano e le aderenti erano in gran parte assistenti sociali, educatrici, militanti sindacali. Tra le 200 partecipanti di 50 paesi spiccava Andrée Jouve, psicoanalista e membro influente della sezione francese della Wilpf fn dagli anni della Grande guerra. Rappresentavano l’Italia Maria Remiddi, Anna Garofalo, Maria Roverano e Teresita Santedeschi Scelba; assenti le delegate russe, l’Udi, le comuniste francesi e spagnole.
Cinquanta nazioni: più di duecento donne di tutte le razze, religioni, condizione sociale, idee politiche […]. Come avrei voluto farvi entrare con me nel salone dell’Unesco e farvi avere quel colpo d’occhio indimenticabile che io ebbi il giorno dell’apertura del congresso(41).
Il congresso fu caratterizzato da una grande libertà di discussione e da una altrettanto grande apertura a donne di tutto il mondo indipendentemente dai sistemi politici dei rispettivi paesi e dalle adesioni di partito. Nel suo intervento dal titoloEsperienze di propaganda per la pace,Remiddi affermò: Il partito è un’arca chiusa […] Gli individui che militano in un partito sono uomini e donne completamente presi dalla loro ideologia […] E a chi non ha la possibilità di comprensione di chi è di differente idea, come si potrà parlare di pace?(42)
Obiettivo dell’Entente era quello di favorire la formazione di associazioni femminili di massa che potessero inviare in parlamento un gruppo di donne decise a promuovere la causa della pace. Alla radio e attraverso il bollettino dell’Aimu Anna Garofalo diede risonanza al congresso e alle sue deliberazioni:
Le italiane si trovano in un consesso internazionale per la prima volta dopo il ventennio. Sono nuove alla tecnica delle discussioni democratiche, delle commissioni, delle mozioni. È una esperienza che conterà nella loro vita futura, un riallacciarsi al periodo pre-fascista, alla tradizione liberale […]. La guerra è presente in tutti gli spiriti ed è ricordata da grandi cartelli colorati appesi ai muri, dove sono stampati grafci con il numero dei morti,feriti, mutilati, esuli, senzatetto, deportati in tutto il mondo, a causa dell’ultima guerra. Cifre terribili. Si vedono gli occhi delle donne presenti poggiarvisi e ritrarsene pieni di tristezza e di vergogna. Ogni uomo, in ogni parte del mondo, è un poco responsabile di questi delitti(43).
Le deliberazioni del congresso, che si aprivano con l’affermazione della sacralità della vita come diritto umano fondamentale, invitavano le donne a riunirsi periodicamente, a chiedere ai governi di essere presenti nelle organizzazioni internazionali (Onu, Unesco, Fao) e nei parlamenti in proporzione al loro peso numerico, di impegnarsi per l’abolizione della tortura, delle deportazioni e perché stampa, radio e cinema fossero messi al servizio della pace, per l’inserimento delle lingue straniere nelle scuole, l’abolizione dei giocattoli bellici, per il rinnovamento radicale dei libri di testo e per la dignità della donna in tutti gli ambiti della vita civile.
È un bel programma e le donne che lasciano Parigi se lo porteranno con loro come una speranza, senza tuttavia farsi troppe illusioni. Sanno˗e lo hanno detto ˗che dovranno lottare contro leorze che ovunque si oppongono ai programmi pacifici e alla solidarietà internazionale: forze economiche, imperialistiche, nazionalistiche. Antichi egoismi, antichi e nuovi privilegi(44).
L’Ententenon terrà il suo secondo congresso che avrebbe dovuto svolgersi in Italia, e di lì a poco si sciolse, indebolita dall’assenza delle comuniste, dalla defezione delle donne dei paesi dell’Est, che pure avevano partecipato al congresso di Parigi, e sopraffatta dalla superiorità organizzativa della Federazione di Eugenie Cotton. Dal 1947 al 1949 Anna Garofalo intensifcò la collaborazione con l’Aimu scrivendo tutti gli articoli di apertura del suo bollettino, “Volontà di pace”. Nel primo numero così presentava lo spirito e gli scopi della nuova organizzazione: È sua intenzione far valere la volontà femminile di pace in seno ai governi e nei consessi internazionali […] educare le giovani generazioni con spirito antibellico […] Dare impulso agli studi sulle cause che determinano la guerra, […] organizzare scambi e collegamenti tra le donne di tutti i paesi mediante visite, corrispondenze, soggiorni all’estero(45).
“A questo invincibile fronte femminile ˗ concludeva la giornalista romana ˗ più che a tutti i consessi e le conferenze degli uomini ˗ vanno oggi la nostra speranza e la nostra ferma volontà di pace”(46).
Nel 1948, nell’imminenza della consultazione elettorale, collaborò alla stesura di un questionario da sottoporre ai candidati che chiedeva di precisare il loro impegno per la pace. La proposta era stata avanzata da Aldo Capitini al congresso pacifsta di Firenze del 1947 ed era stata accolta dall’Aimu. Nella prima bozza del questionario Anna Garofalo incluse l’impegno a sostenere l’obiezione di coscienza, questione prioritaria per Capitini e che allora solo una minoranza di pacifsti era disposta ad accogliere(47).
Le risposte al questionario sembrarono incoraggianti; tutti i deputati si impegnarono per la pace. “Promesse o azione?” si chiedeva Anna Garofalo nel maggio 1948. Molto sarebbe dipeso dalla determinazione delle donne uscite vittoriose dalla competizione elettorale.
Speriamo che la loro voce, un po’foca ed esile nella passata costituente, si sia irrobustita con l’esperienza e che esse sappiano imprimere, nel lavoro che compiranno e nelle idee che proporranno al congresso, il segno di una personalità sicura e di una decisa volontà(48).
Nell’estate dello stesso anno si recò in Danimarca dove entrò in contatto con la Wilpf a cui l’Aimu aderirà qualche anno dopo. Nella sezione italiana della Wilpf, che aveva lo scopo di contribuire allo sviluppo della collaborazione tra i popoli, identifcare le cause della guerra, adoperarsi per la loro eliminazione e promuovere la soluzione nonviolenta dei confitti, Anna Garofalo sarà delegata alla stampa.
Speranze senza illusioni
Alla vigilia della nuova competizione elettorale si era riproposta la questione se alle donne sarebbe stata consentita una scelta libera e consapevole. L’occasione per affrontare il tema alla radio le venne da una lettera di alcune donne sarde che si defnivano “donne di casa”: Ci parli, per favore, dei partiti politici in Italia. Ci spieghi bene, di ognuno, quello che si propone, quello che signifca. Noi non abbiamo ancora le idee chiare. Se ne chiediamo in famiglia, agli uomini, ci rispondono: “Che vi interessa? Quando sarà il momento di votare, vi diremo noi per chi farlo”. Questo non ci sembra giusto(49).
E mentre la Democrazia cristiana moltiplicava le pressioni su tutti gli organi dell’Azione cattolica, “coloro che potevano e sapevano, annota Anna Garofalo, non compivano abbastanza il loro dovere verso i più semplici”(50). Tutto questo faceva presagire che i risultati elettorali dell’aprile 1948 avrebbero risospinto le donne nei loro angusti confini e che la loro emancipazione avrebbe subito una battuta d’arresto.
Gli ambienti della Rai risentirono per primi dell’ondata di conformismo che investì il paese dopo la vittoria schiacciante della Democrazia cristiana. “[Alla Rai] ci si preoccupa che ogni parola diretta [alle donne] sia intonata a quella concezione tradizionale, a quel binomio casa-famiglia da cui esse non dovrebbero uscire, malgrado tutto quello che è successo”(51).
Le parole di una donna, trasmesse sino adesso in ora di grande ascolto, vengono spostate a ore pomeridiane o vespertine […] I dirigenti non possono concepire che questa trasmissione, scritta e detta da una donna, ma destinata agli ascoltatori in genere, debba trovar posto accanto al discorso dell’uomo politico o al giornale radio. La commissione dei programmi considera le donne come una categoria, alla stregua degli scolari, dei militari, degli agricoltori e non come il 53% degli elettori italiani. Vagano nell’aria limitazioni non chiaramente espresse ma trasparenti sui soggetti proibiti, raccomandazioni gesuitiche vengono trasmesse impersonalmente, senza che alcuno se ne assuma la diretta responsabilità, sul tono da adoperare, sui principi da ribadire(52).
La Rai, concludeva, si metteva sulla strada dell’Eiar, sottomessa alle manovre sotterranee della politica di parte, resa audace dalla schiacciante maggioranza ottenuta, legata al carro del clericalismo e della conservazione sociale. “Il fascismo si riaffaccia”(53). Eppure, scriveva, “bisogna andare avantifnché si può”.
Tra il 1948 e il 1950 la giornalista romana cercò comunque di affrontare ancora temi “proibiti” quali il divorzio, la violenza alle donne, la prostituzione, la disuguaglianza dei coniugi nel codice civile, la sperequazione salariale e le discriminazioni sul lavoro e diede rilievo a quelle “bombe lanciate da mani femminili” in Parlamento: il progetto di legge per l’abolizione delle case chiuse e quello sull’uguaglianza giuridica trafgli legittimi e illegittimi. Il primo era stato presentato dalla senatrice Lina Merlin il 6 agosto 1948 e aveva causato una vera e propria “esplosione di rabbia maschile” che faceva presagire un iter legislativo lungo e irto di diffcoltà (54). Tra i proprietari delle case di tolleranza, denunciò, vi erano personalità influenti legate al Vaticano che avrebbero cercato di sabotare il progetto “a colpi di milioni”. Le aspirazioni a una vita dignitosa sarebbero state deluse.
In una lunga Monografa redatta per la Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia qualche anno più tardi scriverà:
Nelle donne e nelle ragazze che si accompagnavano alle truppe alleate nei caffè, per le strade, sulle jeeps e anche in quelle che sostavano agli angoli delle strade o si avvilivano “nelle case chiuse” si poteva riconoscere, al di là della incontrollata reazione a lunghi patimenti, la possibilità di una nuova luce di vita, di una recuperabile dignità […]. Purtroppo non fu così(55).
I problemi del lavoro, delle abitazioni, delle scuole, della famiglia, della povertà che erano all’origine della prostituzione e che la alimentavano costantemente non furono affrontati. Così, mentre l’Italia democratica e repubblicana ricostruiva i suoi edifici, riadattava i suoi binari, riattivava le sue ciminiere, lasciava intatto il regime poliziesco della “regolamentazione” della prostituzione, unica nazione al mondo, insieme a Spagna e Portogallo, a non considerarla un retaggio infamante.
Rastrellata dalle strade e dai vicoli, dai locali pubblici e dai parchi, perché non disturbasse la vista dei passanti, la prostituzione si ricompose e si organizzò clandestinamente, nelle case di appuntamenti e, con il concorso dello Stato, che vi trovava il suo tornaconto, nelle cosiddette case chiuse, con tutto il suo bagaglio di sfruttamento, di degradazione, e di pericolo per la pubblica salute”(56).
La mancata approvazione della legge non teneva soltanto l’Italia in condizione di inferiorità rispetto alle altre nazioni, ma impediva il progresso sociale e lo sviluppo democratico. Lo aveva affermato nel 1949 in un articolo basato sulle lettere inviate alla senatrice Merlin da numerosissime donne che si prostituivano nelle “case chiuse”.
Ogni coraggiosa riforma sociale segna […] l’inizio di un nuovo costume, di una nuova moralità […]. Un problema non è maifne a sé stesso e una riorma ne porta con sé sempre altre. Quella dell’abolizione delle maisons closesè legata all’educazione sessuale dei giovani, al diritto al lavoro, all’uguaglianza di uomini e donne, a una nuova dignità della persona umana, in clima di libertà e di democrazia(57).
Il secondo progetto ebbe un iter parlamentare ancora più lungo e tormentato. Era stato presentato nel 1949 dalla deputata forentina del partito socialista lavoratori italiani Bianca Bianchi(58) e non si sarebbe tradotto in legge che nel 1975.
Le reazioni a queste proposte coraggiose, commentava Anna Garofalo, furono improntate allo stesso compunto moralismo, alla stessa “difesa d’uffcio” della “santità della famiglia”.
Ci siano pure nel mondo donne umiliate e sfruttate, bambini senza sorriso, senza cure e senza avvenire, purché siano salvi il benessere degli eletti, il loro asse ereditario, la idilliaca pace del focolare non turbato da rimorsi, non inquinato da intrusi. È ancora sempre lo spirito schiavistico, lo spirito di discriminazione razziale; quello che dalla Capanna dello zio Tom è arrivato ai forni di Buchenwald (59).
Nel 1950 la trasmissione venne chiusa, ma Anna Garofalo continuerà, in qualità di giornalista di inchiesta e di scrittrice, a trattare le questioni legate alla condizione e alla cittadinanza femminile, questioni che non si erano risolte con la conquista del voto, e ad avanzare l’idea di una democrazia costruita con il contributo attivo di tutte le donne, a cominciare dalle “ultime”, sulla base dei loro bisogni e delle loro aspettative. La cittadinanza femminile, come la intendeva Anna Garofalo, era un diffcile percorso di autodeterminazione; solo una volontà decisa, sorretta dalla
fducia nella saggezza delle donne semplici, solo l’affrancamento dalle direttive di partito e da ogni condizionamento dall’alto avrebbero potuto realizzare quella rappresentanza che a tutt’oggi le donne italiane sono ben lontane dall’aver ottenuto.
Note
(1) Insegna Storia delle donne e Storia del pensiero politico e sociale contemporaneo all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Studiosa della Grande guerra, ed in particolare dell’esperienza bellica di soldati e ufficiali, si è occupata del pensiero pacifsta e della deportazione della popolazione civile nel corso delle due guerre mondiali. Dal 2004 dirige la rivista telematica “DEP. Deportate, esuli, profughe”. Tra le sue pubblicazioni si ricorda:La follia e la fuga(Bulzoni 2001);Deportazione e memorie femminili 1899-1953 (Unicopli 2002).
(2) Anna Garofalo, L’italiana in Italia, Laterza, Bari 1956, p. 39. L’immagine è visibile in rete all’indirizzo http://search.acs.beniculturali.it/OpacACS/guida/IT-ACS-AS0001-0004572
(3) Citato in Anna Rossi-Doria,Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, Giunti, Firenze 1996, p. 68.
(4) Togliatti prima e in seguito il Consiglio nazionale della Democrazia cristiana si erano espressi in tal senso nell’estate del 1944.
(5) Cito da Marina D’Amelia (a cura di),Donne alle urne. La conquista del voto. Documenti 1864- 1946, Biblink, Roma 2006, p.124. L’intero documento è riprodotto alle pagine 117-125.
(6) Ibidem.
(7) Citato in Anna Rossi-Doria,Diventare cittadine, cit., p. 70
(8) Ivi, p. 21.
(9) Anna Rossi-Doria, Diventare cittadine, cit., p. 13.
(10) Anna Garofalo, In guerra si muore, Universale Editrice, Roma 1945, pp. 62-63.
(11) Anna Garofalo fu collaboratrice de “Il Mondo”, di “Nuovi Argomenti”, del “Corriere della Sera”, di “Epoca”, “Il Mattino d’Italia”, della rivista “Il Ponte”, fondato nel 1945 da Piero Calamandrei, e fece parte del comitato direttivo di “Astrolabio”, periodico fondato e diretto da Ferruccio Parri. Nel 1953 vinse la sesta edizione del premio Saint Vincent per il giornalismo.
(12) Anna Garofalo, L’italiana in Italia, Laterza, Bari 1956, p. VIII
(13) Citato in Mirko Grasso, Scoprire
l’Italia. Inchieste e documentari degli anni Cinquanta,
Kurumuny, Calimera (Lecce) 2007, pp. 94-95
(14) Ivi, p. 96, lettera 8 maggio 1955.
(15) Anna Garofalo, L’italiana in Italia, Laterza,
Bari 1956, p. 3.
(16) Anna Garofalo, In guerra si muore, cit., p. 65.
(17) Anna Garofalo, Guerromania, in “Volontà di
pace”, anno II, n. 2, maggio 1948, Archivio centrale dello stato (ACS), Carte
Maria Bajocco Remiddi (CR), b. 17, f. 103.
(18) Anna Garofalo, L’italiana in Italia, cit., p. 4
e 8.
(19) Ivi, p. 11.
(20) Ivi, p. 5.
(21) Ivi, p. 23
(22) Ivi, p. 27.
(23) Ivi, p. 39.
(24) Ivi, p. 45.
(25) Le donne saranno ammesse alla Magistratura solo nel 1963.
(26) Anna Rossi Doria, Diventare cittadine, cit., p. 17.
(27) Ivi, pp. 18-19.
(28) Alla Fif aderì in un primo momento anche anche
l’Aimu che vedeva nella Fif la prima importante occasione di entrare in un
organismo internazionale femminile. Anna Scarantino, Donne per la pace. Maria
Bajocco Remiddi e l’Associazione internazionale madri unite per la pace
nell’Italia della guerra fredda, Angeli, Milano 2006, p. 190
(29) Anna Garofalo, L’italiana in Italia, cit., pp. 42-43.
(30) Brano citato in Anna Rossi-Doria, Diventare cittadine, cit., p. 68.
(31) Sulla Wilpf, sorta nel 1915 e tuttora in vita, molto è stato scritto. Per uno sguardo di insieme, sulla sua nascita, il suo sviluppo, il mod